Ne "El desierto" Borges racconta di un uomo che in un deserto, vicino ad una piramide, solleva una manciata di sabbia e, lasciandola ricadere, pensa tra sé e sé: "Sto modificando la crosta terrestre".
La ricerca sull'architettura di Silvia Gmür, per un lungo periodo con Livio Vacchini e ora con il figlio Reto, si interroga su questo semplice gesto e su questa radicale riflessione: "Costruire significa modificare la crosta terrestre".
La sua è una architettura rigorosa che vuole che la dimensione poetica nasca tenendo assieme l’esperienza dello spazio, il modo in cui si può abitare, la struttura che tutto tiene e la luce che dà vita.
L’abitare è indagato da Silvia Gmür soprattutto nella progettazione degli ospedali, che è diventato uno dei temi costanti di ricerca dello studio, seguendo il dettato di Le Corbusier: l’ospedale è la casa dell’uomo.
La semplicità del gesto raccontato da Borges e la radicalità del pensiero che nasce, costringe ad un viatico molto determinato e, per molti aspetti solitario.
Non c’è la ricerca della seduzione per la seduzione; non c’è il gioco dell’architettura come metafora o
come effetto; non c’è il gesto che si pretende autoriale (o artistico).
Le sue opere evitano volutamente il confronto con le retoriche spettacolari del postmodernismo nelle sue molteplici forme. E questo accade in un contesto come quello svizzero e in particolare basilese, che si offre continuamente come un vero e proprio laboratorio sulle strategie oggi possibili per l’architettura, per la sua comprensione e, persino, per il suo destino.
È indubbiamente una scelta controcorrente, e proprio per questo va indagata.